Stimolato dalle valutazioni che mi sono sembrate chiuse, poco popolari e autereferenziali espresse in occasione della lectio degasperiana 2018 organizzata dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi nei giorni scorsi, ho ritenuto doveroso scrivere un intervento per smentire alcuni falsi miti sulla tradizione popolarista italiana.
Leader politici come Alcide De Gasperi, Don Sturzo o Costantino Mortati avevano teorizzato e auspicato un pieno coinvolgimento del popolo nelle più importanti decisioni della vita pubblica. Partendo dal presupposto della fiducia nella maturità, nella solidità e nella capacità di autogoverno dei cittadini italiani, a loro dire il popolo era il più qualificato organo dello stato democratico e il referendum era lo strumento migliore per far prevalere “il buon senso comune”. Ora, invece, una minoranza elitaria vuole farci credere che il popolo sia una massa informe e indeterminata, prona ai peggiori istinti e bisognosa di guida e disciplina superiori.
Nella riflessione pubblicata sulle pagine del Trentino ho cercato di affrontare le incongruenze interpretative dei professori Pombeni e Panebianco riprendendo puntuali e memorabili affermazioni dei leader politici sopra menzionati per mettere a fuoco la fallacia del dogma della classe politica che crede nel mito della rappresentanza degli ottimati. (segue versione testuale)
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Versione testuale;
IL POPOLO E’ IL PIU’ QUALIFICATO ORGANO DELLO STATO DEMOCRATICO
Molti “intellettuali” vicini alla classe politica e ai gruppi di potere economico-finanziario continuano a sostenere una polemica faziosa e interessata nei confronti di quei partiti che essi definiscono con disprezzo “populisti”, termine che essi, forse ignari della sua storia e del suo significato, equiparano ad insulto. Da buoni ultimi in questa scia si inseriscono con le loro recenti “valutazioni”, Panebianco & Bombeni. Pare di capire che nella “visione” di questi due signori, il popolo da solo non sia in grado di prendere la benché minima decisione e debba pertanto sempre affidarsi ad “ottimati”, a quelle élite delle quali essi si sentono parte integrante. Di conseguenza se la prendono con chiunque metta in discussione il loro assunto (esplicitato più o meno palesemente) che il popolo debba intendersi come massa informe ed indeterminata, prona ai peggiori istinti e bisognosa di guida e disciplina superiori. Se pare una visione di comodo, offensiva ed in definitiva antidemocratica è perché lo è. Senza scomodare il famoso apologo Menenio Agrippa, la dicotomia popolo contro élite è vecchia come l’umanità per cui è naturale che sul tema si manifestino differenze, anche accese, di vedute. Quello che è inaccettabile è che questi signori ripropongano ricette vetuste facendole passare per il non plus ultra dell’innovazione (a tal proposito si vedano le dichiarazioni di “sinceri liberali” come il senatore Monti, che ormai invocano apertamente restrizioni al diritto di voto). In quest’ottica è forse anche peggiore il tentativo di “reclutare” alla “causa” statisti che hanno avuto un ruolo importante nella storia del nostro Paese e che nei fatti erano ben lontani dalle posizioni ottocentesche di Pombeni & Panebianco.
Nel celebre discorso ai microfoni di Radio Roma del 1° maggio 1945, pochi giorni dopo la morte di Hitler e Mussolini, in qualità di ultimo Ministro degli esteri del Regno d’Italia, Alcide De Gasperi si riferiva al popolo italiano definendolo “sobrio, risparmiatore e amante della famiglia e caratterizzato da spirito d’iniziativa industriale, creatività e inventiva”. Nel riconoscere i Paesi vincitori degli eventi bellici come amici e fratelli, De Gasperi sottolineava quanto fosse necessario dimostrare loro la capacità degli italiani di costruire un Paese fondato sulla libertà democratica e sulla fraternità sociale e lasciarsi alle spalle un passato fatto d’odio, faziosità, plutocrazia e tirannia.
Nel medesimo discorso De Gasperi si premurava di sottolineare la necessità di rinsaldare nei futuri alleati atlantici la fiducia nella maturità, nella solidità, nella capacità di autogoverno, nella libertà e nell’ordine che caratterizzavano il popolo italiano. Annunciava inoltre che andavano archiviate senza indugio le convulsioni faziose e le improvvisazioni giacobine ma che si sarebbe dovuto procedere “attraverso libere decisioni di popolo, secondo le leggi della democrazia, che dalle montagne della Svizzera si trapiantarono nelle regioni d’America”.
De Gasperi non era però l’unico politico del tempo a perorare la causa della partecipazione popolare. Don Luigi Sturzo nel programma municipale dei cattolici italiani evidenziava la duplice funzione dei referendum: educativa e di controllo sull’attività della pubblica amministrazione. Sul referendum scriveva: “non è solo il mezzo più sicuro per far prevalere il buon senso comune alle vedute personali o arbitrarie di pochi mandati al potere, è un’esplicazione legittima di vita collettiva, un’efficace partecipazione del popolo alla vita delle questioni più ardue, più gravi, di maggior interesse morale, sociale, economico, è la vera e reale manifestazione del bisogno e dello spirito dell’ambiente in cui il voto popolare è il prodotto più rappresentativo e più sintetico”. Lo strumento referendario doveva essere uno dei tre pilastri delle istituzioni locali. Gli altri due erano l’autonomia gestionale e finanziaria e la rappresentanza eletta con un sistema proporzionale. Le motivazioni a sostegno di una simile visione scaturivano dal fatto che il popolo, se non avesse esercitato la sua sovranità, avrebbe corso il rischio di “subire per necessità, per fatalismo, un ambiente artefatto, viziato, formato da mille compromessi, da losche consorterie, da turbolenti agitatori, da corruttori in guanti gialli preoccupati più che altro della posizione politica”.
L’altro grande personaggio politico da inquadrare nella tradizione popolarista fu Costantino Mortati, relatore della Parte II della Costituzione e, successivamente, giudice della Corte Costituzionale. Anch’egli credeva nel coinvolgimento diretto del popolo nella vita politica per limitare le degenerazioni dei partiti ritenendo il popolo il più qualificato organo politico dello Stato democratico. Tra gli interventi in seno ai lavori della Costituente finalizzati a enfatizzare la necessità di riconoscere il potere al popolo uno dei più noti è il seguente: “il Popolo non si consulta, non dà pareri, il Popolo decide”. Infine, per rimarcare la “funzione equilibratrice” del popolo tramite il referendum aggiungeva: “nel senso che potrebbe anzitutto avere l’effetto utile di promuovere l’educazione politica del popolo, predisponendolo a queste consultazioni, e quindi di promuovere una certa idoneità vantaggiosa alla progressiva elevazione dell’attitudine politica popolare nell’apprezzamento dei programmi politici”.
I giudizi di Pombeni e Panebianco appaiono pertanto eccessivamente conservatori e improntati a una concezione elitaria della politica. Le loro esternazioni, forse viziate dalla paura di perdere la posizione di preminenza che in questi anni è stata garantita loro dalla classe dirigente locale, si pongono per troppi aspetti in antitesi alla visione aperta e genuinamente popolare brevemente descritta nelle premesse. Dalle loro parole emerge la convinzione che il popolo sia capace di agire solo nel momento in cui deve riconfermare i soliti “mandati al potere”. Per il resto è in grado di esprimere unicamente istinti antipluralisti e pertanto deve essere escluso dai processi decisionali ai quali possono partecipare solo gli esponenti dei partiti che negli ultimi decenni hanno pericolosamente avvicinato il Paese al collasso.
A breve, il processo di emancipazione democratica del popolo potrebbe rendere più fluido e libero il dibattito nelle istituzioni sociali, culturali e politiche sciogliendo le tesi oscurantiste sulla partecipazione popolare come neve al sole. E chissà se in occasione della prossima lectio magistralis potremo ascoltare un’interpretazione storica più rispondente alla visione di De Gasperi e degli altri leader popolari e meno a quella delle chiuse, poco popolari e autoreferenziali élite attuali. Una lettura che, auspicabilmente, riconosca il diritto effettivo dei cittadini a partecipare attivamente e direttamente alle vita politica.
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