Reddito di cittadinanza e Lavoro devono marciare uniti, e serve ripensare il sistema

* lettera pubblicata su L’Adige il 18 aprile 2019

La lettera di Giulio Menegoni e Michele Berti (immagini a piè di pagina) in risposta al mio intervento su Reddito di Cittadinanza e prospettive del lavoro pone molti stimoli interessanti e in larghissima parte condivisibili, a partire dall’auspicio di una maggiore coesione sociale derivante dal superamento della logica homo homini lupus, oggi imperante.

Allo stesso tempo è giusta la prospettiva di puntare sul rilancio del lavoro come mezzo principe di affrancamento e progresso dal bisogno, pur nella consapevolezza che la contemporaneità pone enormi ostacoli al suo conseguimento. Nel mondo di oggi per far crescere il lavoro bisogna fare i conti con problematiche enormi, che vanno oltre la dimensione nazionale. Solo per fare qualche esempio si parla di questioni come il dumping salariale e le guerre commerciali fra Stati o dei progressivi effetti della robotizzazione produttiva sulla domanda di lavoro umano e delle conseguenze implicite a livello di produttività.

In questo quadro, il Reddito di Cittadinanza è uno strumento che serve a mitigare le conseguenze dell’evoluzione in atto da tempo e in via di acutizzazione a livello globale. È un modo per ridurre la povertà e dare alle persone la possibilità di rimettersi in piedi ma non è la cura del problema in sé.

Per invertire la rotta servono riforme economiche, politiche e sociali profonde e capaci di mettere in discussione l’ideologia mainstream e serve anche uno Stato che torni a fare politica industriale, dettando le linee di sviluppo sulla base delle reali esigenze del Paese. Un esempio esplicativo dell’inversione necessaria sono le grandi opere stile TAV Torino-Lione o il prolungamento dell’autostrada Valdastico, che al netto dei fantasmagorici benefici millantati da chi pensa di guadagnare (e tanto) sulla loro realizzazione sono inutili e anzi, fanno danni. Queste opere canalizzano risorse ingenti che si sa in anticipo di andare a spendere male e che potremmo invece impiegare molto meglio, creando lavoro e sviluppando professionalità anche nuove, ad esempio tramite un ampio piano di manutenzione delle grandi opere costruite nei decenni scorsi e di messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale dai rischi idrogeologici resi più frequenti dal cambiamento climatico in atto. Perché ciò avvenga serve però che lo Stato torni a fare lo Stato e inizi a dettare la linea e ad imporsi sui desiderata più o meno occulti dei tanti gruppi di potere che da anni ne orientano le scelte con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. È una sfida impervia che richiede prima di tutto un cambiamento culturale profondo, ma data la posta in palio non possiamo esimerci dall’affrontarla.

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