Uno degli incontri più piacevoli che ho avuto nella stagione estiva appena conclusa è stato senza dubbio quello con Mario Antolini detto “Muson”. L’ho chiamato al telefono pochi minuti prima del mio arrivo ed ho trovato aperte le porte di casa sua. Abbiamo passato ore a conversare di politica e di altri temi cercando di trovare un senso comune al nostro vivere quotidiano.
Mario è nato nel 1919, io nel 1977: 58 anni di differenza. Apparteniamo senza dubbio a generazioni diverse. Eppure per quanto mi riguarda, la sintonia di pensiero è decisamente forte. L’ho conosciuto nel 2019. Ci siamo incontrati fisicamente solo un paio di volte ma abbiamo dialogato come se ci conoscessimo da una (lunga) vita.
In considerazione delle sue conoscenze storiche, della visione olistica che lo caratterizza e della gran voglia di mettere le mani sulla tastiera per esprimere il suo saggio e acuto pensiero, mi sono permesso di chiedergli di produrre una disamina critica sui temi della democrazia nelle comunità locali trentine.
Alla domanda specifica di esprimere il suo punto di vista sulla questione «Democrazia e partecipazione a livello locale. Transizione dalle “Carte di Regola” medioevali agli Statuti comunali degli ultimi decenni», la sua risposta scritta è arrivata nel giro di poche ore. Come da par suo, la lucidità di analisi e la schiettezza nell’esternare la sua opinione non sono mancate.
D’accordo con lui, condivido il suo scritto su questo spazio virtuale nella speranza di sollecitare il vostro spirito critico e generare una discussione per riflettere sullo sviluppo della democrazia a livello locale.
Grazie alle vostre riflessioni vorrei individuare soluzioni, o perfezionare quelle che ho messo in cantiere nelle sedi istituzionali e sulle quali sto lavorando, per migliorare il sistema di regole che disciplinano la vita pubblica delle nostre comunità.
In attesa delle vostre considerazioni vi auguro una buona lettura!
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“Carte di Regola” del medioevo e “Statuti comunali” del Duemila
di Mario Antolini “Muson”
Secondo quel poco che conosco considero le “Carte di Regola” – stilate dai Giudicariesi dal 1200 al 1800 – le basi concrete del saper gestire “in comunione” il “bene comune”, rappresentato dalle “proprietà collettive”. Una testimonianza troppo poco studiata e poco conosciuta specie dagli amministratori attuali e dagli addetti alla formulazione dei dettati giuridici; vi è ancora molto da imparare specie indagando sulle motivazioni che stanno a monte di ciascun articolo, dettato e stilato con saggezza ma reale buon senso nella perfetta conoscenza della realtà oggettiva delle persone, delle situazioni/condizionamenti oggettive e dei fatti.
Il concetto di godere del territorio “in comune” deriva dalle tribù germaniche, – specialmente dai Celti e dei Galli Cenomini – solitamente nomadi, che nella preistoria occupavano provvisoriamente una determinata località per poi passare ad un’altra senza che nessuno prendesse possesso, privatamente, del suolo occupato. Il concetto di proprietà privata giunse con i Romani ma, inizialmente, ci si limitò all’edificio abitativo, poiché il resto del territorio era ancora considerato goduto in comune, tanto è vero che la parte valliva attorno alle abitazioni era detta “regola di casa” relativa alle zone coltivate che passavano a turno ogni cinque anni fra coloro che si dedicavano alla coltivazione di campi e prati, e “regola di monte” che si riferiva a tutto il resto del territorio sia sul fondovalle che sui declivi montani che rimaneva “bene collettivo”. Col tempo la proprietà privata si estese anche ai campi coltivati, ma tutto il resto rimase “proprietà collettiva” e tale è tuttora, tanto che – in Giudicarie – si usufruisce di più dell’80 per cento del territorio “goduto in comune” attraverso le gestioni delle Asuc (Amministrazioni Separate di Uso Civico): istituzione giuridica tuttora sul tappeto nell’incapacità di trovarne l’adeguata impostazione; anche perché sia la Regione che le Province autonome non sono ancora riuscite a trovare la giusta ed equilibrata impostazione giuridica per la gestione delle “proprietà collettive”.
In merito alle “Regole” (o Statuti) va precisato che prima di essere stese su carta, le norme di comportamento da rispettare nel pieno rispetto del territorio erano praticate da tutti i “vicini” (tali chiamavano i cittadini di una “commùnitas” detta “vicinìa”) senza bisogno che vi fosse bisogno di un testo scritto. Soltanto quando iniziarono a manifestarsi delle manchevolezze e degli insanabili disguidi nell’osservanza dei comportamenti solidali, si ritenne necessario stendere le “Regole” in maniera di colpire duramente gli inadempienti quasi seduta stante e non certo con pagamenti posticipati. Per di più, già a 14 anni – se ritenuti di buona fama – ogni “vicino” poteva accusare chiunque fosse stato trovato a trasgredire il dettato regolano.
Caratteristica delle “Regole” è la concretezza di ogni articolo che si conclude con la pena in denaro da pagare immediatamente per ciascun trasgressore in tempi in cui le monete non erano certo di facile circolazione. In ogni articolo si evidenzia la particolarità del comportamento che si deve avere su ogni metro quadrato del territorio goduto “in comune” sia che si tratti di strade, che di prati e boschi, che di corsi d’acqua, o di qualsiasi altro comportamento in società. Esemplare il dettato che “l’uomo” migliore in famiglia, una volta al mese doveva dedicare gratuitamente una giornata in favore della tenuta del bene comune. Inoltre, ogni vicino” doveva provvedere a quanto di sua competenza nell’ambito sia dell’abitato che in campagna ed in montagna senza attendersi l’aiuto da parte della “communitas” che non aveva dipendenti per i servizi ordinari, se non per i corsi d’acqua (gli “acquadori”) e per la gestione in generale del territorio (il “saltaro”): dipendenti pubblici che ricevevano un compenso direttamente dai vicini.
Altra caratteristica il fatto che i provvedimenti erano discussi in comunità e l’approvazione avveniva sulla pubblica piazza dopo che erano stati letti in pubblico e sottoscritti dalle persone competenti dopo l’approvazione dell’assemblea dei vicini. Quindi tutti ne conoscevano il testo “udito/ascoltato” e non poteva essere considerato “non conosciuto”.
In fatto di “democrazia” in quei secoli era intesa nel modo più corretto. Infatti le elezioni avvenivano sulla pubblica piazza (di solito il 1° di gennaio al freddo) e la propria volontà si esprimeva “vocatim”, cioè a voce alta, e ben conoscendo chi si votava, poiché si sceglievano persone ben conosciute nell’ambito della propria comunità che rimaneva intatta per secoli senza infiltrazioni di sorta, poiché i “forestieri” (che giungevano da fuori) non facevano parte della communitas e non godevano dei “beni comuni”. Soltanto le loro generazioni successive potevano “acquistare” (in denaro) il “diritto” di vicino.
Soltanto così le Giudicarie giunsero compatte e ben gestite alle soglie dell’Ottocento, e nel 1815 caddero nelle maglie del casato asburgico che non fece altro che trascriverne il territorio nel catasto moderno così come era stato diviso e gestito mediante le “Regole”, anche se gli Austriaci considerarono le “Regole” carta da stracciare, ma a torto, tanto è vero che i 91 comuni catastali (tuttora intoccabili) persistono a vivere tali e quali come individuati e resi tali durante gli otto secoli delle “Regole”; pure con l’avvento del Regno d’Italia, e poi della Repubblica italiana ed alla fine con l’istituzione della Regione e delle due Province autonome; ogni poter pubblico non dovette far altro che lasciare le cose così come erano state elaborate nei secoli medievali; vi fu soltanto un tentativo del fascismo di abolire le “proprietà collettive” (e le Asuc), ma fortunatamente andò a vuoto.
In merito agli “Statuti comunali” voluti dalla Provincia autonoma, personalmente li giudico quanto mai negativi ed inutili; ovviamente a livello del tutto “personale” senza documenti alla mano e senza alcuna riferimento a qualsiasi specifico Statuto in particolare. Unicamente una mia personale convinzione per quanto, direttamente ed indirettamente, posso sapere e per quanto me ne sono reso conto per esperienza.
Innanzitutto ci si deve convincere oggettivamente che tali Statuti non sono nati dal basso, come invece lo erano state le “Regole” medioevali prima messe prima in pratica e poi trascritte in carta. Gli attuali Statuti comunali sono stati elaborati nelle segrete stanze ed imposti dall’alto senza alcuna consultazione o coinvolgimento delle popolazioni interessate. Per lo più dati da stilare in mano a personale, non so se sempre ed ovunque quanto qualificato, gran parte del quale – per mia supposizione – non conosceva dettagliatamente in maniera adeguata né i “territori collettivi” e tanto meno conosceva a fondo le popolazioni che avrebbero dovuto osservane ed applicare i dettami degli Statui comunali.
Gli Statuti sono restati (e restano) carte morte, insulse, chiuse nei cassetti ed inapplicate poiché inapplicabili. Per di più mai fatti conoscere direttamente agli interessati, i quali sarebbero dovuto resi in possesso di una copia dello Statuto tenuto sotto gli occhi in ogni casa. Per quanto ne so, si sarebbe dovuto prendere in mano una “Regola” (una qualsiasi) dei secoli scorsi e adattarla alla situazioni attale, poiché l’assetto urbanistico sia abitativo che territoriale ed i condizionamenti sociali sono rimasti identici a quelli del passato, per cui le “regole” possono rimanere nel preciso rispetto del territorio e della vita comunitaria così come lo sono state per otto secoli, dal Mille al 1800 e poi mantenute vive, per atavica tradizione fino al secolo scorso e soltanto attualmente (nel Duemila) trasgredite in questi ultimi periodi di dissesto sociale.
I testi che giacciono negli armadi e nei cassetti, risultano composti da testi arzigogolati di vane parole, di cui gli avvocati se ne fanno gioco, poiché stilati con norme non affatto chiare precise come invece risultano quelle delle “Regole” che non potevano assolutamente essere fraintese né da chi doveva osservarle alla lettera, né da alcun leguleo di mestiere.
Se si sente ancora bisogno di “Statuti” e di “Regolamenti” si abbia l’umiltà di scendere dagli scranni dei legulei di mestiere e di mettere le mani in pasta: sentire la gente, “tastare” l’ambiente vivo nella quotidianità, andare a piedi a rendersi conto di come giace o sono da riassettare i territori tuttora “collettivi”. Non si amministra stando chiusi fra le comode pareti degli uffici; la gente sta fuori ed è necessario mescolarsi ad essa; così i territori che restano lontani e che vanno raggiunti e visitati “de visu”.
Forse soltanto chiacchiere a vuoto ma a 100 anni suonati non posso che pensarla così avendo vissuto tutta la vita in società fra la gente con ci ho convissuto e su un territorio che ho calpestato palmo a palmo e che ho cecato di conoscere più a fondo possibile e che ho amato ed amo in maniera davvero per me quanto mai penetrante.
Mario Antolini Musón
Tutto ciò che di buono proviene dal passato non andrebbe mai cancellato del tutto dalla memoria umana, perché è condannato a tornare, a ripetersi.
Non è perché un metodo o un concetto è antico che dobbiamo considerarlo superato a priori e buttato nel dimenticatoio o rottamato, come si fa oggi con un PC vecchio,sarebbe un grave errore : il moderno proviene dall’antico e mai viceversa.
Anche l’internet di oggi proviene dalla scrittura Mesopotamica sull’argilla, poi ci fu il papiro egizio scelto (al posto dell’argilla) per praticità dai primi greci ( l’internet dell’antichità) che abbiamo ancora oggi sotto-forma di libro.
Anche lo scrivere manuale, che oggi la scrittura a tastiera ha eluso, sembra che in America ritorni urgentemente nelle scuole primarie e secondarie perché han capito che privarsene del tutto della scrittura manuale,si priva il cervello di una parte cognitiva fondamentale, ergo, un ritorno a quel che era già buono del passato.
Non dimentichiamo poi ciò che fecero nel medioevo i lungimiranti monaci benedettini amanuensi, dopo la caduta dell’Impero romano: trascrissero di continuo per secoli e secoli,nei loro monasteri, gli antichi saperi romani.
I monaci così facendo, conservarono, oltre gli antichi saperi anche l’antica lingua latina, della quale poi, l’Imperatore Carlo Magno ( che era oltretutto analfabeta) dovette ricorrere , grazie ai monaci benedettini, per salvare l’Europa da quello che sarebbe stato un inevitabile imbarbarimento della lingua istituendo la lingua unica latina, la cosiddetta: Scolastica, dalla quale oggi provengono tutte le lingue neolatine dell’Europa.
Senza i “folli” monaci che seppero conservare caparbiamente gli antichi saperi, non ci sarebbe stato il Rinascimento Europeo.
Il concetto di proprietà privata giunse con i Romani, che a loro volta attinsero e appresero dagli Etruschi e dai Greci che, a loro volta, appresero dagli Egizi e dai Babilonesi.
Dal passato si attinge quel buono che, se era buono allora, mai scomparirà.
Prima o poi, ritorna,